Attacchi di panico in montagna
Premessa
Può capitare, a chi frequenta la montagna, di dover affrontare un problema che può essere imprevisto e potenzialmente pericoloso: gli attacchi di panico.
Sto parlando di quelle reazioni di forte paura che si manifestano con un blocco fisico o con un tentativo di fuga incontrollata da situazioni potenzialmente pericolose. In entrambi i casi, l’impulsività della reazione rischia di diventare pericolosa poiché porta a una perdita di lucidità mentale da parte del soggetto, e il conseguente pericolo concreto di azioni inconsulte.
Chi frequenta la montagna conosce la paura “sana” che accompagna tutte le occasioni in cui si affrontano situazioni delicate in cui il rischio di “farsi male” è potenzialmente presente. Questa paura è una preziosa compagna che deve essere tenuta ben stretta. Essa deve servire come campanello d’allarme per mantenere attivi e reattivi i sensi, rendendoci maggiormente pronti ad affrontare la particolare situazione complessa. La paura deve essere il campanello d’allarme e non il regista in grado di condizionare o, peggio ancora, di guidare le nostre azioni. Le azioni è essenziale che le guidi la parte razionale e cognitiva del nostro cervello. Questa parte è sicuramente più funzionale nel valutare e trovare la soluzione più adeguata al problema.
E’ evidente che la reazione di paura è estremamente soggettiva. La valutazione mentale della gravità del rischio che si sta affrontando tiene conto di tanti fattori: il danno potenziale conseguenza dell’incidente (una potenziale sbucciatura o una caduta grave con rischio di fratture o, peggio ancora, di morte); la personale competenza tecnica nel sapersi muovere in un ambiente potenzialmente pericoloso; la condizione fisica posseduta in quel momento (riposati o già molto affaticati, allenati o no); l’affiatamento e la fiducia nei compagni di avventura; la motivazione e determinazione che spinge ad affrontare quella specifica situazione; la conclusione parzialmente positiva di esperienze passate simili a quella che stiamo affrontando; altro. Se diversi dei precedenti fattori sono negativi, la paura può trasformarsi in ansia diffusa, la quale, in momenti di maggior stress, può esplodere in un attacco di panico.
Cos’è un attacco di panico.
Secondo la definizione ufficiale maggiormente utilizzata (DSM5), l’attacco di panico consiste nella “comparsa improvvisa di paura intensa, o disagio, che raggiunge il picco in pochi minuti”. L’esplosione in tempi brevi e la riduzione notevole delle capacità cognitive sono proprio le caratteristiche fondamentali dell’attacco di panico che lo distinguono da un'ansia intensa.
Alcuni dei sintomi che possono manifestarsi sono:
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Tachicardia, palpitazioni
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Sudorazione
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Tremori fini o grandi scosse
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Sensazione di soffocamento, di asfissia
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Dolore o fastidio al petto
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Nausea o disturbi addominali
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Sensazione di vertigine, d’instabilità, di “testa leggera” o di svenimento
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Brividi o vampate di calore
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Parestesie (rigidità fisiche, sensazioni di torpore o formicolii)
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Derealizzazione (sensazione d’irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi)
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Paura di perdere il controllo o di “impazzire”
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Paura di morire.
Alcuni esempi pratici di possibili manifestazioni di attacchi di panico in montagna:
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lungo una via d’arrampicata una persona si blocca in sosta irrigidendosi contro la parete con la muscolatura completamente contratta, gli occhi chiusi, senza riuscire più né a salire, né a scendere e con la sensazione di morte imminente;
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su un passaggio delicato una persona decide categoricamente di ritornare sui suoi passi senza essere più in grado di ascoltare suggerimenti o indicazioni. Un solo pensiero gli occupa la mente: andarsene via da quel posto.
Perché succede tutto questo?
L’insorgere di un attacco di panico può essere favorito sia da cause biologiche sia psicologiche. Una delle ipotesi maggiormente accreditate è che siano coinvolti contemporaneamente fattori fisiologici e psicologici e che ci si trovi di fronte ad una specie di “inganno fisiologico”.
Aspetti biologici
Quando la nostra mente interpreta la situazione che stiamo affrontando come potenzialmente pericolosa, si attivano regioni del nostro cervello più arcaiche (nucleo dell'amigdala) deputate a salvaguardare la nostra sopravvivenza fisica. Questo cervello primitivo è programmato per reagire al pericolo in modo “animalesco”, emozionale e immediato. Esso non si sofferma sui dettagli ma reagisce il più rapidamente possibile al fine di preservare la propria sopravvivenza. Questo è il motivo per cui alcune reazioni scaturiscono anche dinanzi a stimoli confusi o poco razionali. Questo sistema cerebrale arcaico è quello che fa sobbalzare di fronte ad un rumore forte e improvviso, oppure innesca la fuga travolgente e incontrollata di gruppi di persone al sospetto di un attentato.
La strategia primaria che questo sistema cerca di realizzare è la fuga, l’evitamento, l’allontanamento dalla causa che genera il pericolo.
Tutte le altre strategie successive sono attivate se, per qualche motivo, questa non è possibile. Le principali sono:
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l’attacco e l’aggressione (il tentativo di distruggere la causa del pericolo)
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il congelamento, il blocco fisico e l’immobilità (il tentativo di non “essere visto” dall’aggressore) fino al collasso (finta morte)
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la dissociazione (avviene qualvolta si diventa lucidi, senza più emozioni, completamente razionali oppure quando si ottiene la sensazione di essere osservatori esterni dal proprio stesso corpo).
L’amigdala, per agire queste strategie difensive, attiva il sistema nervoso simpatico (che fa parte del sistema nervoso autonomo, indipendente dalla nostra volontà̀ e dai nostri ragionamenti). Il sistema nervoso autonomo stimola diversi cambiamenti fisiologici utili a modificare il corpo e metterlo nella condizione migliore ad affrontare la situazione minacciosa.
I principali effetti fisiologici sono:
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l’aumento del battito cardiaco con un conseguente aumento della pressione arteriosa per una maggiore irrorazione della muscolatura
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l’aumento della temperatura corporea e conseguente aumento della sudorazione per rendere la muscolatura più reattiva
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l’aumento del ritmo respiratorio utile a una maggiore ossigenazione del sangue
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la dilatazione delle pupille per avere un maggior controllo visivo della situazione
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il rilascio di sostanze chimiche nel cervello che agiscono come eccitatori su vari organi (adrenalina) allo scopo di migliorare la reattività e innalzare la soglia di percezione del dolore
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il blocco degli sfinteri e dello stomaco per potenziare l’attenzione sugli organi coinvolti nell’azione
Fino a questo punto si tratta ancora di reazioni fisiologiche, cosiddette “sane”.
Tuttavia, anche l’ambiente incide sul nostro organismo. Se ci troviamo in condizioni ambientali sfavorevoli come, ad esempio, una riduzione dell’ossigeno nell’aria dovuto a quote altimetriche significative o alla presenza di temperature e livelli di inquinamento accentuato, oppure un vissuto di pericolo che perdura nel tempo, il corpo cercherà di compensare queste situazioni sfavorevoli potenziando le reazioni fisiologiche sopracitate (aumento del battito sanguigno, iperventilazione, ...).
A questo caso accade ciò che viene chiamato un "cortocircuito mentale".
L’iperventilazione prolungata, crea un forte squilibrio nella concentrazione ossigeno/anidride carbonica presente nel sangue con la conseguenza paradossale che il sangue non riesce più a trasferire l'ossigeno alle cellule. Più si cerca di assimilare ossigeno, più il corpo fatica ad assorbirlo e metabolizzarlo. Gli effetti che si producono sono una costante sensazione di “fame d’aria” e l’insorgenza di confusione mentale e debolezza fisica.
A questo punto, l'amigdala che monitorizza sia la situazione esterna sia i sintomi interni, può interpretare questo peggioramento fisico come il segnale di una situazione pericolosa che sta ulteriormente degenerando (possono insorgere pensieri catastrofici: “Non ce la faccio! Mi scoppia il cuore! Sto svenendo! Adesso muoio!") così da scatenare le strategie di sopravvivenza (fuga, congelamento, ...).
Aspetti psicologici.
Gli aspetti pericolosi di una situazione non riguardano solamente il rischio di un danno fisico ma possono riguardare anche il pericolo di un danno psicologico alla propria immagine, alla propria identità. Noi esseri umani consideriamo pericolosa ogni situazione in cui rischiamo di danneggiare la nostra immagine, la nostra identità. Questo può avvenire tutte le volte che non riusciamo a portare a termine, come c’eravamo prefissato o immaginato, le attività che stiamo svolgendo.
Non mi dilungo su quest’aspetto in quanto il ruolo della memoria, della fantasia, delle conoscenze più o meno realistiche, possono creare molteplici condizioni favorenti l'insorgere di malessere con una forte componente di ansia. Mi limito, per lo scopo di quest’articolo ad accennare a quelle più frequenti.
Spesso il pericolo psicologico è vissuto come prioritario rispetto al pericolo fisico e quindi si accetta di affrontare e di rimanere in situazioni fisicamente rischiose solamente per salvare la propria immagine (Esempio: “Vado ad arrampicare o a fare un’escursione impegnativa solamente per compiacere il/la partner”).
Questa situazione può portare ad un forte conflitto interno. Una parte istintiva che vorrebbe scappare a gambe levate da una situazione vissuta come fisicamente pericolosa e una parte più razionale che obbliga a rimanere nel pericolo per evitarne un’altro ancora maggiore (essere deriso, dover ridimensionare la propria immagine, prendere atto di propri limiti…). E' inevitabile che questa condizione di autocostrizione produca una sana reazione di paura che, con il persistere della situazione, può trasformarsi in ansia e favorire l'attivazione dei meccanismi fisiologici accennati in precedenza.
Altro aspetto psicologico che può intervenire nell’accentuare la sensazione di pericolo è, se nella memoria e nella storia recente della persona vi sono episodi simili (anche solo per qualche dettaglio) che abbiano già attivato fortemente il sistema simpatico. Le caratteristiche della situazione attuale possono richiamare dalla memoria questi episodi che possono sommarsi e sovrapporsi al presente distorcendo, in termini negativi, la percezione della situazione reale.
Che cosa fare.
Come in precedenza descritto, quando si attivano questi circuiti mentali, la parte razionale e cognitiva è disattivata. E’ estremamente difficile, per la persona coinvolta, riuscire a riflettere e a trovare la strategia maggiormente efficace e funzionale al superamento del problema. Egli non sarà neppure in grado di ascoltare suggerimenti o incoraggiamenti.
Se si vuole cercare di “sbloccare” la persona, quindi, si deve interrompere i processi fisiologici descritti sopra, al fine di permettere alla persona di recuperare le sue abilità e capacità cognitive. Il modo più efficace per farlo è offrendogli rassicurazione e stimolarlo affinché venga riattivata la sua parte razionale e logica. Per farlo, dobbiamo offrirgli la nostra parte logica e fare in modo che egli la accolga.
Cercando di essere i più pratici possibili, ipotizziamo una situazione concreta: immaginiamo una persona bloccata da un attacco di panico (di tipo congelamento) in una condizione pericolosa per una potenziale caduta (durante un’arrampicata o su un passaggio ripido e/o scivoloso). Che cosa fare?
Primo obiettivo: realizzare una condizione di sicurezza.
La persona con un attacco di panico non è più in grado di valutare la situazione e le proprie risorse; rischia di fare agiti ed azioni inconsulte al solo scopo di togliersi dalla situazione vissuta come pericolosa.
In concreto:
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Mi avvicino e mi metto in sicurezza. Prima di pensare all’altra persona devo garantirmi di non farmi del male. Ci può essere il rischio che la persona in panico faccia gesti inconsulti, che si aggrappi o cerchi di scappare. Successivamente cerco di mettere in sicurezza anche lui.
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Cerco di farmi vedere. La persona in panico è travolta dai tanti stimoli che non riesce a filtrare. E’ necessario che egli mi distingua dal caos che ha in testa. Se ci sono più persone accorse in aiuto, solo uno parla. Uso frasi brevi e semplici. In questo modo cerco di focalizzare la sua attenzione per instaurare un rapido rapporto di fiducia affinché possa riuscire ad ascoltarmi. Uso un tono di voce accogliente ma assertivo. Esempio: “(nome) guardami! Ascoltami! Stai avendo un attacco di panico. Io so come toglierti di qui. Ho già visto altre persone nelle tue condizioni. Ti puoi fidare! Adesso fai quello che ti dico io. Vedrai che ci togliamo da questa situazione e starai meglio”.
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Cerco di attivargli il pensiero logico e concreto. La nostra mente riesce a fare una sola cosa per volta. Se il pensiero è attivo sui processi logici, disinnesca l’emotività. Alcune strategie sono:
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Fornisco istruzioni. Esempio: “Passami il moschettone. Passami la corda. Tieni il rinvio…”
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Faccio domande. Esempio: “Dimmi il tuo cognome. Come mi chiamo?...”
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Verifico che mantenga il contatto: richiedo che faccia alcune cose per verificare che ubbidisca. Esempio: “Passami il moschettone. Tieni la corda…”
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Continuo a parlare per mantenere un legame e non farlo sentire abbandonato. Faccio complimenti per quello che fa, descrivo cosa sto facendo. Attenzione! E’ molto importante non usare parole che contengano immagini paurose come: “Non aver paura. Adesso non cadrai più. Non c’è più pericolo di farsi del male, di morire”. Usare parole che evochino immagini di sicurezza: “Bene. Adesso siamo in sicurezza. Possiamo stare tranquilli. Il posto è solido e siamo ben assicurati. Ci rilassiamo un attimo e prendiamo fiato”.
Secondo obiettivo: ridurre l’attacco di panico
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Messa in sicurezza la persona si può pensare allo sblocco fisico (lavoro sul respiro). Esempio: “Bene! Bravo! Ora, se sei riuscito a… puoi anche concentrarti sul respiro. E’ necessario che riprendi a respirare bene. Fai un respiro profondo. Prendi aria lentamente dal naso. Uno, due, tre. Ora trattieni il fiato e poi rilascia dalla bocca, lentamente. Uno, due, tre, quattro. Bravo! Molto bene! Fallo ancora! (Fate anche voi gli stessi respiri finché non notate che si sta calmando). Bene! Ora respira normalmente. Inspira, espira (una decina di volte). Bravo! Ora che va un po’ meglio continua a fare quello che io ti dico”.
Terzo obiettivo: uscire dalla situazione di pericolo
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Lavoro per uscire dalla situazione o per stabilizzarla. Dò istruzioni. Esempio: “Bene, adesso che stai meglio vediamo di uscire da qui. Io ti sarò sempre vicino e ti dirò cosa fare. Ok? Prendi…”.
Se la persona è ancora molto spaventata, occupare la sua mente con processi logici: Esempio: “Ho bisogno che, mentre andiamo via, tu conti a voce alta da 50 in avanti la tabellina del tre: 50, 53, 56, 59, … (oppure cantare una canzone, recitare una poesia, un mantra)”.
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Monitorizzo e supporto la persona. Può essere che la persona si senta ancora debole e confusa. Rimango vicino e osservo le reazioni. Può essere necessario ricordargli di mantenere una respirazione regolare. Lo gratifico perché ha saputo controllare il disturbo.
Che cosa fare, invece, se l'attacco di panico sta arrivando a noi stessi?
Chiaramente è importante rendersene conto mentre sta arrivando, riconoscere le reazioni fisiologiche esagerate come un attacco di panico. A questo punto è importante ricordare che tutti i sintomi fisici non sono causati da una patologia reale ma da una percezione distorta. Non sta avvenendo nessun danno fisico reale. In sostanza:
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Ricordare che, anche se si ha la sensazione di svenire, questo non accadrà. L’ansia non favorirà un infarto, la morte o la pazzia. Punto essenziale, essa passerà.
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Fare una "pausa" e cercare di "rallentare" le azioni e gli stimoli.
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Rallentate il respiro con inspirazioni lente (contare mentalmente fino a 3), trattenete un attimo il respiro e poi, sempre lentamente, espirate (contare mentalmente fino a 4). Può aiutare fare uno sbadiglio profondo per rompere il ritmo dell'iperventilazione o farsi scorrere dell'acqua sul viso.
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Occupare la mente con pensieri positivi (es.: cosa farete di bello dopo la felice conclusione di questa esperienza; quali viaggi farete; ... ) oppure con un compito che richieda concentrazione (es.: contate la tabellina del 3 partendo da 50; ricordare le parole della canzone preferita; elencare il nome dei vecchi compagni di classe; ...).
Per terminare, dopo che è passata la fase critica, essere consapevole che siete riusciti a controllarla e che non è automatico che si ripeta (visto la necessità, per attivarla, di tutte le concause accennate in precedenza). Ridotta l'ansia e la preoccupazione è utile fare una riflessione serena sui possibili motivi che possono avere scatenato la crisi parlandone con gli amici, con il proprio compagno/a o, se si ritiene opportuno, con un professionista psicoterapeuta.
Giovanni Piretto